Francesco la cava era nato a
Careri il 26 maggio 1877 da Giuseppina Colacresi e Giuseppe La Cava, un massaro
a corto d’istruzione ma ricco di ingegno, che con l’arguzia caratteristica delle
persone semplici, come del resto altri in quell’epoca, era riuscito a percepire,
più istintivamente che razionalmente, i rapidi cambiamenti socio – politici del
tempo e a prevederne gli sviluppi anche di tipo economico. Allo status conferito
dalla proprietà della terra, si sovrapponeva o si affiancava quello acquistato
dalla professionalità, con un evidente salto di qualità. Perciò il giovane
Francesco, primo di sei figli, venne affidato alle cure dello zio Rocco La Cava
arciprete di Careri, il quale dopo avere curato personalmente l’istruzione
primaria del nipote, lo inviò per continuare gli studi al Seminario Vescovile di
Gerace, dove già riuscirà a mettersi in evidenza per notevole capacità ed
impegno.
Frequentò quindi il liceo Maurolico di Messina, una scuola prestigiosa alla
quale confluivano gli elementi più promettenti dell’area dello Stretto, ed in
tale città conseguì la maturità classica nell’anno 1895. Si iscrisse poi in
medicina all’università di Napoli, certamente in quell’epoca ed in tale facoltà,
una delle più importanti d’Italia, potendo annoverare tra i dicenti, studiosi di
chiara fama quali Antonello e Schòn. A Napoli Francesco sa cogliere ciò che di
positivo può offrire la grande città, senza rimanere invischiato nelle mille
tentazioni di evasione o nelle novità di comportamento, conscio anche del fatto
che il vecchio massaro ha ancora cinque figli ai quali preparare un avvenire.
E’ agli inizi del secolo che maggiormente comincia a manifestarsi in
Francesco prossimo alla laurea, quella attitudine a considerare la professione
medica come una missione e a maturare il concetto medico – uomo- società che
caratterizzerà e dimensionerà la sua personalità e il suo impegno durante tutta
la vita. Nei periodi di vacanza a Careri, infatti, Francesco presta assistenza
ai malati gratuitamente, perfettamente a suo agio nei catoi e nelle povere
abitazioni dei contadini del paese, nelle quali spesso mancava non sola una
sedia, ma perfino una bacinella decente in cui potersi lavare le mani al termine
della visita. Questo rapporto medico uomo – operaio uomo, lavoro intellettuale –
lavoro manuale, ambedue preziosi e dignitosi, si inserirà come caratteristica
peculiare nella personalità del La Cava, personalità alimentata e surrogata da
una profonda fede cristiana che ne qualificherà l’opera e l’esistenza, la prassi
e l’impegno di vita intensa come presenza sociale e testimonianza etico –
professionale.
“Era incredibile, racconta ancora F. Perri, suo amico e parente, la fiducia
che tutti fin da allora avevano per lui, tanto ch’egli doveva faticare non poco
a persuadere la gente che non era ancora medico”.
Francesco consegue la laurea nel 1902 coi massimi dei voti e viene chiamato a
collaborare nella ricerca medica dal prof. Cardarelli, ma deve rifiutare suo
malgrado, vuoi perché le condizioni economiche non lo permettono, trovandosi
impegnati negli studi anche i fratelli Rocco e Pasquale, vuoi perché abbastanza
incomprensibile sarà apparsa agli occhi del vecchio massaro la volontà del
medico che invece di svolgere la professione si fosse dato a continuare gli
studi.
Nel frattempo viene chiamato ad espletare il servizio di leva e si reca a
Firenze dove trascorre tutto il periodo di ferma quale ufficiale medico del
corpo dei bersaglieri.
Tornato in Calabria, nel 1904 ottiene la condotta medica di Bovalino Marina.
Si trasferisce pertanto in questa che sarà la sua città di adozione insieme al
fratello Rocco, il quale si era già diplomato presso l’Istituto Magistrale di
Messina e che sposerà nel 1907 Marianna Procopio.
A proposito di questo periodo iniziale, scrive Mario La Cava:
“ Francesco La Cava si dedicò all’esercizio della professione in una regione
depressa, resa ancora più misera dai problemi insorti con l’unificazione
politica, dove mancava ogni ausilio ospedaliero, e dove il medico per necessità
doveva essere sempre infermiere e chirurgo “.
La condotta di Bovalino M. dà anche al giovane medico la possibilità di
sviluppare nuove amicizie e di riprendere quelle della prima giovinezza
allacciate all’epoca della sua permanenza a Gerace e Messina.
Entra così in intimità con le famiglie Spagnolo, Lentini, Morisciano, col notaio
Barletta, col dott. Santoro, anch’egli condotto a Bovalino e medico delle
ferrovie, e varie altre persone, operai ed artigiani tra i quali vanno ricordati
il padre di mastro Francesco Italiano e Francesco Panuzzo.
Non frequentò mai il Circolo dei Civili, nemmeno dopo che si sarà sposato ed il
circolo avrà sede al piano terra della sua casa.
I giorni ed i mesi trascorrono assorbiti nel lavoro e nelle visite che
settimanalmente fa a Careri presso il padre e gli altri familiari. Le lunghe
passeggiate in compagnia dell’avvocato Spagnolo, lo portano sovente fino al
ponte di S. Elena, che come scrive Marianna Procopio, era la meta finale, a
principio di secolo, delle passeggiate pomeridiana delle signorine bovalinesi.
E’ in tali occasione di svago che conosce una bellissima ragazza bovalinese,
Concettina Morisciano, appartenente ad una delle famiglie più note della zona, e
sboccia un amore che per dolcezza e fedeltà sarà destinato a incidere
profondamente nella vita del La Cava ed a plasmarne ulteriormente la
personalità. Concetta è una ragazza virtuosa e colta, animata da una profonda
fede religiosa, e, per come ci viene tramandata la sua figura, caratterizzata da
una forte personalità; la sua umiltà contrasta non poco con la naturale
alterigia delle sue compagne appartenenti alla “ nobiltà “ dell’epoca, e la sua
eleganza è raffinata ma sobria. La successiva richiesta di fidanzamento viene
ben accolta dalla famiglia Morisciano che nutre per il giovane medico una stima
sincera sia dal punto di vista professionale che personale. Il matrimonio viene
celebrato il 30 giugno 1907. Sulla vita coniugale, scrive ancora F. Perri che “
Fu l’unione di due vite che si concludono come una splendida giornata di sole
con un sereno e luminoso tramonto”. La loro casa divenne un salotto
intellettuale ed un ritrovo per quanti si interessavano di arte, musica,
letteratura e medicina. Gli amici, oltre che da Bovalino, giungevano da Locri,
Ardore, Bruzzano, Ferruzzano e perfino da Melito; di questi anni infatti le
relazioni che intratterrà duraturamente con l’avv. Scaglione di Locri, con il
farmacista socialista Giuseppe Sculli di Ferruzzano, col console Spanò di
Ardore, con Francesco D’Aguì di Bruzzano, e con il dott. Tiberio Evoli di
Melito, che successivamente, quando gli verrà intitolato l’ospedale del proprio
paese, rifiuterà qualsiasi relatore che non fosse stato Francesco La Cava.
La personalità del La Cava appare da un punto di vista etico di formazione
cristiana, e dal punto di vista scientifico rigorosamente positivista.
Questa distinzione è importante per comprendere meglio quelli che saranno i
suoi campi di applicazione come studioso e cultore d’esegetica, come scienziato
ricercatore, come “ archeologo” della pittura. Nonostante la posizione
preminente in paese e la formazione culturale testè accennata, rifiutò sempre di
occuparsi di politica attiva, anche per non essere coinvolto nelle beghe
politiche locali, e intrattenne rapporti culturali con uomini della più varia
formazione politica, stimato per la sua lealtà e lo acume intellettuale.
La condotta di Bovalino, la vita coniugale sufficientemente serena e agiata, le
frequenti e numerose occasioni di relazione, non riuscirono però a distogliere
il La Cava dai giovanili “ appetiti “ di ricerca, cioè dalla attitudine ad
indagare sulla ragione delle cose, dalla tendenza alla riflessione critica,
all’esame per metodi comparativi, in poche parole dalla volontà di intendere e
di gestire la professione secondo dinamiche metodologiche di indirizzo
positivista.
Nei pochi scritti biografici sul La Cava, esistono chiare descrizioni sui metodi
scientifici d’indagine in campo medico; in campo artistico la scoperta del volto
di Michelangelo viene trattato quale “ rilevazione”, dando a questa parola che
si trova nello scritto autobiografico del Nostro il significato di “ incidens”,
in altre parole quale scoperta fortuita da parte di un cultore d’arte. Non si
indaga inoltre sulle possibili correlazioni tra i due campi di applicazione del
La Cava, quello scientifico e quello artistico.
E riteniamo che ciò sia avvenuto perché l’indagine è stata condotta
settorialmente e l’anamnesi personale ha cercato di volta in volta di
evidenziare l’uomo scienziato, l’uomo critico d’arte, l’uomo cultore di
patristica ed esegesi cristiane, mai l’uomo La Cava nella totalità della sua
personalità, della sua formazione psicologica, scientifica ed umanistica, nella
correlazione dei più diversi fattori che hanno concorso a formarla, con un
metodo di indagine di tipo strutturalista che perviene alla visione di un
insieme dinamico attraverso l’analisi correlativa di tutti quei fattori o
rapporti che determinano la struttura stessa.
Sono state scritte delle ottime pagine da parte di eminenti personalità sul
“come” Francesco La Cava abbia portato a termine certe scoperte, ma poco o
niente si è indagato sui perché di quelle scoperte, cioè sui fattori che hanno
concorso a determinarle.
E se è vero che dei fattori principali è dato dalla acquisizione di una
metodologia scientifica, è altrettanto vero che egli si porta appresso,
riteniamo consapevolmente, un suo bagaglio culturale di “ tradizione” ,
attraverso il quale riesce naturalmente ad osservare la realtà con l’occhio del
contadino o del pastore, con quella capacità, peculiare dell’uomo dei grandi
spazi, i cui sensi non sono ancora stati atrofizzati dalla vita urbana,
attraverso la quale viene facile ed oserei dire naturale cogliere rapidamente il
particolare nella totalità, osservare ed analizzare le caratteristiche di detto
particolare e risalire quindi all ‘ insieme attraverso la ricomposizione
razionale e sistematica di tutti i rapporti alla struttura.
E’ proprio in conseguenza di quanto ora affermato, che il La Cava, avendo
avuto in cura un giovane bovalinese di 19 anni, di professione scalpellino, e
che da circa quattro mesi presentava un’intumescenza a forma di bottone
all’altezza dell’articolazione del pugno destro, e che diagnostica con certezza
quale “ bottone d’Aleppo “, viene assalito dal dubbio che alcune affermazioni
morbose caratteristiche del Nord Africa siano presenti in Calabria e in Sicilia
in maniera autonoma.
Egli individuò così e catalogò nel comprensorio bovalinese circa duecento
casi di malattie tropicali.
Fu questo un periodo molto importante perché non solo egli riuscì a curare tali
manifestazioni morbose, mai registrate in Europa, ma per la peculiarità della
sua personalità testè delineata, si pose ed affrontò il problema pure a livello
teorico, divulgando le sue esperienze su riviste mediche e in congressi di una
certa importanza. Dei circa duecento casi catalogati nella zona, molti erano
stati curati dai medici di allora come casi di malaria con la conseguente
somministrazione di chinino. Egli riuscì a dimostrare che molti di quei casi
erano dovuti in realtà alla diffusione di quella stessa Leishmania, e cioè il
Kala-azar. Ottenne così mediante una terapia specifica la riduzione sensibile
della mortalità dei suoi malati, ed il “ coccio calloso” non più causticato ma
adeguatamente curato, non deturpò più la fisionomia dei suoi paesani.
Gli anni tra il 1910 e l’inizio della prima guerra mondiale registrano un
impegno non comune in queste ricerche, peraltro coronate non solo da successi ma
anche da riconoscimenti unanimi anche a livello internazionale.
Nel 1910 La Cava descrive un caso di febbre Dengue, ed in collaborazione col
prof. Gabbi, docente di malattie tropicali all’università di Roma , alcuni casi
clinici di “ Bottone d’Oriente “ o Leishmaniosi cutanea, scoperti a Bovalino,
accompagnati da un accurato studio istologico.
Nel dicembre dello stesso anno, presenta al Congresso di Medicina Interna
di Messina un lavoro intitolato:" LE MALATTIE TROPICALI A BOVALINO “ che
riassume tutti teorici e pratici compiuti fino a quel momento.
Nel 1911, G. B. Grassi, direttore dell’istituto di Anatomia Comparata
dell’università di Roma, presenta all’Accademia dei Lincei uno studio di F. La
Cava, pubblicato nel maggio dello stesso anno col titolo:” SULLA PRESENZA DI
LEISHMANIE NEL LIQUIDO CEFALO – RACHIDIANO DI UN BAMBINO AFFETTO DA KALA- AZAR”.
Anche questa scoperta, che gli varrà poi la massima onorificenza, e cioè la
docenza in patologia tropicale concessagli ad honorem, scaturisce dalla
immediatezza con la quale riusciva a cogliere particolari, a prima vista
giudicabili insignificanti da altri, in maniere tale da non venire recepiti, a
definirli e classificarli, fino ad arrivare, per i vari livelli, alla loro
comprensione organica.
Scrive infatti F. La Cava:” Il caso di cui riferisco riguarda un bambino di
quattro anni, Rocca Vincenzo da Benestare, presso Bovalino; questo bimbo era
figlio di contadini, i quali da molti anni abitano una casa spaziosa, salubre,
posta in Benestare, sopra un colle, ove è circondata da verdi piantagioni; nelle
vicinanze è frequentissimo il Bottone d’Oriente e non sono rari i casi di
Kala-azar. In questa casa notammo la presenza di una cagna adulta, e di due
giovani cani , tutti e tre molto magri. Sulla presenza di questi cani noi
richiamiamo subito l’attenzione, perché appunto alla cagna è legato un momento
importante dell’inizio della malattia del bambino. Questa cagna trovavasi nella
famiglia da oltre sei anni, quindi circa due anni prima che nascesse il bambino.
I genitori di questo dichiararono che circa sei mesi prima che il loro figliolo
si ammalasse, la cagna della quale, fino allora, non avevano notato alcun che di
insolito, cominciò a dimagrire e rifiutò sovente il cibo. Essi genitori
aggiunsero anche, che, altri cani tenuti in casa in quel periodo di tempo, son
morti con sintomi di cachessia. La cagna fu da noi sacrificata: L’esame dei
preparati per strisciamento del fegato, della milza e del midollo ha messo in
evidenza i parassiti di Leishman. Con questa nostra ricerca viene accertata la
esistenza della Leishmaniosi nel cane, sulla costa Ionica della Calabria, e
perciò viene dimostrato sempre più come la Leishmaniosi canina si accompagna
alla Leishmaniosi umana: anzi, da quanto sopra esposto, parrebbe risultare che
in questo caso la infezione nel cane abbia rappresentato un momento importante
nella genesi della malattia del bambino.
Quest’ultimo fatto è da mettere in rapporto altre osservazioni da noi stessi
fatte a Bordonaro e alle Isole Eolie, dove fu consigliato di distruggere tutti i
cani dimagrati, e dove all’agosto del 1910 non si è più verificato alcun nuovo
caso di Leishmaniosi umana.
Ma oltre che ai cani, anche agli insetti che avevano potuto o potevano
pungere l’infermo di cui trattiamo, noi abbiamo rivolto la nostra attenzione, e
date le condizioni di ambiente, date le notizie forniteci dai genitori, abbiamo
creduto necessario scegliere per la nostra ricerca le pulci che si potevano
raccattare nelle coltri e nel materasso deve giaceva l’infermo agonizzante.
Queste pulci erano tutte del tipo “ irritans “; ogni pulce venne osservata al
microscopio per riconoscerne la specie. La faticosa ricerca, fatta il 31 maggio
su 100 pulci, non mise in evidenza, all’esame microscopico a fresco, la presenza
di parassiti flagellati e mobili.
L’indomani estendemmo la ricerca ad altre 100 pulci ancora, dall’intestino di
ognuna delle quali fu allestito un preparato per strisciamento che fu quindi
fissato e colorato al Giemsa; in due di esse abbiamo rinvenuto delle tipiche
leishmanie piriformi ed allungate.
La ricerca venne estesa anche a 200 pulci prelevate da cani ed anche in queste
furono rinvenute delle Leishmanie”.
Il La Cava curò dapprima il bambino a Bovalino, dove egli, notando la scomparsa
di Leishmanie nella milza del piccolo paziente e la comparsa di sintomi
neurologici , praticava una puntura lombare repertando nel liquido cefalo –
rachidiano moltissime Leishmanie; riteneva perciò utile richiamare l’attenzione
su questo importante reperto in quanto poteva costituire un metodo diagnostico
di grande valore.
Il bambino venne quindi ricoverato presso la Clinica Medica di Roma nella
sezione di malattie tropicali, diretta dal prof. Gabbi, e dalla quale venne
dimesso dopo circa 20 giorni, e tornato nella casa paterna presentò un continuo
aggravarsi di tutti i sintomi morbosi, fino a giungere alla morte il 5 giugno
Millenovecentoundici .
Nel riscontro autoptico del povero piccolo si scoperse che al quadro clinico ed
anatomico – patologico del Kala – azar si doveva in questo caso anche
l’alterazione delle meningi molli: Era cioè presente una leptomeningite.
Che si trattasse di un caso di Leishmaniosi era stato documentato durante la
malattia dal reperto delle Leishmanie nel materiale raccolto con la puntura
della milza fatta prima del ricovero a Roma dal Prof. La Cava.
Durante il ricovero l’esperimento era stato ripetuto dal Prof. Visentini : Il
succo splenico fu innestato su un terreno di coltura e si ottenne lo sviluppo
del parassita, come venne poi comunicato alla Accademia dei Lincei.
Possiamo adesso affermare che a questo punto una delle scoperte mediche più
importanti del primo Novecento era venuta alla luce.
Gli ultimi risultati, ottenuti con la collaborazione dei Proff. Basile e
Visentini vennero pubblicati coi titoli : “sopra un caso di Leptomeningite da
Leisihmania “ e “Sull’identità della Leshmaniosi”.
Il prof. Gabbi, il quale oltre che come collaboratore prezioso fu anche legato
al La Cava da una profonda amicizia, s’interessò quindi presso il dott. Laveran,
dell’Institut Pasteur di Parigi, direttore del “ Bulletin de la Sociètè de
Pathologie Exotique “per la pubblicazione degli studi dello scienziato
bovalinese , che vennero pubblicati col titolo :” De Laleishmaniose des
muqueuses et de la premiere decouverte de la leishmania tropica flagellee dans
le corps humain ”. Quindi lo stesso Gabbi propose Francesco La Cava per la
libera docenza in Patologia Tropicale alla Università di Roma.
Per mezzo di questa scoperta infatti, comunicata attraverso la stampa
medica mondiale, crollò la tesi dell’endemicità di alcune malattie tropicali e
molti casi poterono essere individuati non solo nelle regioni italiane, ma anche
in zone più lontane del continente europeo.
L’acquistata notorietà in campo internazionale non turba però il nostro La
Cava, non ne frena lo slancio all’indagine scientifica né lo porta a
rilassamenti gratificanti verso se stesso.
Per il medico della piccola condotta di Bovalino la cosa più importante
continua ad essere la salute dei concittadini, ed ogni sforzo tende non alla
auto soddisfazione personalistica ma al soddisfacimento della richiesta di
salute sociale. In altri campi della patologia F. La Cava applicò nuovissime
conoscenze, e precisamente nella cura della Amebiasi intestinale e dell'
ascesso epatico intestinale. La sindrome dissenterica, scrive La Cava, è dovuta
a “ cause etiologiche diverse, in base alle quali più di dieci forme vengono
distinte….. tra queste la più importante per la sua gravità, e per le
svariatissime complicazioni spesso mortali, è la dissenteria dovuta alla
entamoeba histolitica”. La dissenteria da amebe è diffusissima in tutti i climi
tropicali; ma ora con una certa frequenza si riscontra anche in Europa tra i
rimpatriati dalle colonie, ed anche tra quelli che hanno sempre vissuto nel
luogo natio. Il primo caso realmente grave, di cui gli capita di occuparsi , è
infatti proprio quello di un colono rimpatriato, e precisamente di Ettore
Badolato, di 26 anni, insegnante elementare, di Bovalino. Egli recatosi a Souse,
in Tunisia nell’ottobre 1909 per insegnare nelle scuole italiane, viene colto
dopo circa tre mesi dai sintomi della malattia.
I medici del luogo gli somministrano varie medicine senza alcun esito.
Nel 1910 è costretto a tornare in patria, già ridotto in uno stato
impressionante. Giunto a Bovalino, e affidatosi alle cure del dott. La Cava,
questi pensa alla possibilità che la dissenteria possa dipendere dalla amebe, e
pratica l’esame microscopico delle feci, esame che conferma trattasi di
dissenteria amebica. Il dott. La Cava prescrive all’ammalato tutti i migliori
farmaci conosciuti, ma con scarsi risultati . Si congiunge così fino al 1913,
anno in cui il La Cava sempre attento alle innovazione in campo terapeutico,
viene a sapere attraverso la rivista “ Semaine Médicale” che il dott. Rogers,
studioso inglese di patologia tropicale aveva individuato la terapia delle
amebiasi mediante il cloridrato di emetina.
Il La Cava pensa subito di applicare tale metodo al suo infermo, il quale
volentieri accetta di sperimentarlo su se stesso. Poiché in Italia non esisteva
ancora il cloridrato di emetina, egli si rivolge allo stesso Rogers che si trova
a Calcutta, e questi gentilmente gliene invia mezzo grammo.
I l nostro dottore inizia la cura in modo tale da potere studiare se il
farmaco produce effetti secondari e procede con cautela compiendo accurati
accertamenti di laboratorio ogni 24 ore, e dandone una minuziosa descrizione.
Il 27 marzo dello stesso anno l’insegnante Ettore Badolato era guarito.
I risultati della esperienza furono pubblicati nella rivista scientifica “
Pathologica”, il 15 luglio 1913, col titolo: “ La chemioterapia della
dissenteria amebica”.
In esso veniva fatta una storia della malattia, illustrandone il decorso e i
diversi metodi terapeutici; poi passava a descrivere la nuova scoperta. Infine,
illustrati due casi di dissenteria da egli stesso curati, passava alle
conclusioni affermando che nei sali di emetina si ritrovano le qualità
essenziali dei preparati chemioterapici.
Per due anni, dal 1913 al 1914, Francesco La Cava fu invitato dalla Società
Medico – Chirurgica di Pavia a tenere delle conferenze sugli studi che aveva
condotto, spesso elogiato da insigni studiosi, come il Prof. Golgi.
In questi anni egli descrive casi di ulcera tropicale, di myasi oculare, di
beri beri autoctono nell’Italia Meridionale, ed un pregevole studio col titolo:
“ LA LEBRA A BOVALINO” pubblicato nel giugno 1914.
Rileggendo una lettera che il La Cava scrisse alla moglie il 30 aprile 1913, ci
troviamo di fronte, al di là della ufficialità delle conferenze, alla semplice
gioia di un uomo per i progressi scientifici raggiunti.
Egli infatti così si esprime: “ Io povero me! Avevo una grande paura. Ma invece
figurati che quando ho finito di leggere la conferenza e di fare le proiezioni
cinematografiche dei preparati e dei malati, scoppiò un grande applauso. Batteva
le mani anche il senatore Golgi, il quale poi prese la parola e mi rivolse tali
e tante lodi e in modo così sentito, che io ne sono rimasto vivamente commosso.
Tra le altre cose mi espresse i sensi della sua ammirazione. Figurati un po’ il
senatore Golgi che ammira tuo marito…Io ho subito pensato a te che sei la mia
buona stella..”.
Ma il ciclo ininterrotto delle grandi scoperte mediche, la serena vita coniugale
allietata già da due figli, subiranno una brusca interruzione a causa di eventi
storici che per quattro lunghi anni sconvolgeranno la vita italiana.
A dicembre del 1914 infatti il dott. La Cava viene richiamato alle armi. Per
alcuni mesi presta servizio a Gerace, poi a maggio del1915 parte per il fronte.
La partenza lascia nella costernazione la moglie, i familiari e quanti gli erano
vicini, sia amici che pazienti; egli infatti si era reso insostituibile come
medico, e questa affermazione non è retorica ma testimoniata dal fatto che
successivamente nel 1917 i cittadini sottoscriveranno una petizione al governo
perché faccia rientrare in paese il medico della costa Ionica, richiesta che
però non avrà esito.
Dunque la signora Concetta rimane sola con i due figli nella splendida dimora
ormai vuota di Bovalino, che il dottore aveva fatto ricostruire sui resti di
palazzo Morisciano danneggiato dal terremoto del 1908, e del quale, a
testimonianza dell’antico splendore, rimane ancora oggi la facciata lato mare
del primo piano. Concetta era una di quelle creature nate solo per donare amore
e riversare affetto sui propri cari; l’assenza del marito le portava via gran
parte del suo mondo, solamente confortata dalla fede e dal mutato ruolo, per
dover essere adesso contemporaneamente padre e madre per i propri figli.
Il grande piano del salone dei ricevimenti rimaneva adesso muto, e così
anche l’androne prima affollato ogni mattina dagli infermi provenienti da tutta
la fascia ionica. Nei momenti più tristi Concetta affida i suoi pensieri a un
diario: “ 26 maggio 1915 : Suo compleanno. Tutti gli anni era festa solenne per
noi. E quest’anno ? Che solitudine! Che malinconia! Non ricevo sue notizie. Non
gli posso telegrafare gli auguri e non poso sapere dove si trova. Mentre ero
addolorata mi arriva un telegramma del giorno prima. Un momento di gioia fino
alla sera, quando mi si disse che non si può sapere dove si trovava. Il mio
cuore palpita forte..” Ancora un altro foglio di diario: “ 12 agosto 1915 :
Ricevo una cartolina illustrata scritta con belle e affettuose parole. Quello
che più ho accettato è stato un petalo di rosa rossa, che terrò custodito
gelosamente. L’ho assai gradito. Signore mandate la pace. Dateci la vera pace,
altrimenti siamo perduti”.
I suoi pensieri appaiono di una semplicità meravigliosa e difficilmente ci
si accorge che riguardano una casalinga senza alcuna presunzione letteraria; la
prosa presenta la musicalità e la brevità di una certa lirica greca, e
rappresenta una testimonianza di semplicità e nello stesso tempo di delicatezza
e profondità d’amore.
Ma Francesco si è portato in guerra qualcosa che non lo lascia in pace in nessun
modo, nemmeno tra le fucilate e gli ospedali da campo: L’antico, irrefrenabile
amore per la ricerca scientifica. E lì egli trova il tempo per dedicarsi allo
studio della “ Filaria Brancrofti “, di cui aveva rilevato un caso visitando un
contadino del trevisano. Anche in tale occasione riesce a pubblicare uno studio
dal titolo:
“IL PRIMO CASO AUTOCTONO IN EUROPA DA ELEFANTIASI DA FILARIA
BANCROFTI CON ADONOLINFOCELE E LINFOSCROTO, UN CASO DI FILARIOSI IN PROVINCIA DI
TREVISO”.
Alla fine del 1917, F. La Cava, promosso maggiore, viene trasferito
a Roma come direttore dell’ospedale di riserva “ Aurelio Saffi “.
Stabilitosi nella capitale, il primo pensiero è quello di far venire su la
famiglia, e si stabilisce in una piccola casa d’affitto.
I primi tempi risultano abbastanza difficili, perché da piccolo e
tranquillo ambiente meridionale veniva a trovarsi immerso nella vita intensa e
caotica della grande città. Come capita tutt’oggi ai nostri immigrati al Nord,
le prime amicizie le fa tra i numerosi conterranei residenti a Roma, tra i quali
va ricordato innanzi tutto il giudice Dr. Occhiuto, di Reggio Calabria, che
all’epoca del delitto Matteotti vorrà incriminare Mussolini e che per tale
motivo verrà cacciato dal posto.
Tra il 1917 ed il 1918, durante la terribile epidemia di “spagnola2, egli si
prodiga giorno e notte nella cura dei malati, spesso senza alcun compenso.
Nonostante le scoperte scientifiche, le amicizie con medici illustri e la libera
docenza all’Università, egli rimane di una indicibile modestia. E dedicava anche
molto tempo ai figli, curandone l’istruzione e la educazione, e insieme ad essi
faceva ginnastica ogni mattina. Pur essendo in quel tempo ancora di idee
liberali e moderatamente anticlericale, riconosceva e rispettava la fede
religiosa della moglie. Terminato il periodo di servizio all’Aurelio Saffi, fu
chiamato a far parte più tardi della Commissione delle pensioni di guerra.
Ogni anno i La cava, durante l’estate, tornavano al Sud per rivedere parenti e
amici e per trascorrervi le vacanze estive. Tali viaggi si svolgevano in un
clima di avventura, su vecchi treni permeati di fuliggine che quasi rendevano
irriconoscibili i volti dei viaggiatori alla fine di così lunghi viaggi;
tuttavia i disagi valevano bene il periodo di vacanza che il luogo offriva loro.
La dimora di Bovalino era L’orgoglio del Dott. La Cava: Era un tipico palazzo
meridionale nella piazza del paese, alla fine della strada nazionale che,
attraverso l’Aspromonte, parte da Bovalino per raggiungere Bagnara; il palazzo
aveva un cortile che continuava verso monte con un giardino di agrumi e piante
ornamentali.
Nei periodi di vacanza, F. La Cava continuava a svolgere la professione
medica, e nel tempo libero si dedicava alla lettura, rifugiandosi sulla parte
più alta del palazzo, su una specie di belvedere che egli aveva fatto costruire
appositamente per potere ammirare , come soleva dire, il mare da una parte e il
monte dall’altra.
Tra il 1922 e il 1925 con la “ marcia su Roma “ e l’avvento del fascismo, venne
delineandosi sempre più il vero volto del regime, e per La Cava che aveva sempre
provato orrore per ogni forma di odio e di violenza, come per ogni forma di
enfasi e di retorica cominciò quell’atteggiamento antifascista, di cui non fece
professione attiva, ma che per tutta la vita non abbandonò mai.
In quell’epoca, insieme a comuni amici intellettuali ed al giudice Occhiuto
già citato, diede testimonianza di coerenza e di coraggio, andando a rendere
omaggio a Matteotti sul luogo del vile agguato fascista.
L’attività di quegli anni fu molto intensa, e tra la sua clientela, aumentata di
molto, si annovararono anche nomi illustri come Pietro Mascagni, Francesco
Cilea, l’artista Vincenzo Gemito, il violinista del mondo, ed Ernesto Bonaiuti,
il grande storico perseguitato.
La profonda cultura umanistica, la buona conoscenza delle lingue antiche, unite
all’amore per l’arte, spingevano spesso il Professore a visitare musei e
gallerie, per approfondire con minuziosità i problemi più svariati.
Durante una sua visita alla Cappella Sistina, nel maggio del 1923, mentre si
accingeva a studiare con tranquillità il “ Giudizio Finale”, di colpo gli si
presentò il volto di Michelangelo, piccolissimo particolare nello immenso
dipinto, raffigurato tra le pieghe della pelle di S. Bartolomeo.
La Cava così descrive l’inattesa apparizione:
“ Imprendendo ora lo studio della composizione partitamente nei suoi
vari personaggi, vidi a un tratto la figura di Michelangelo che mi guardava… Un
brivido mi corse per la schiena. Era proprio lui!…Da quel giorno si iniziò per
me un vero tormento spirituale. Il volto dolorante mi accompagnò nelle giornate
laboriose, nelle notti insonni. Dubbi angosciosi, ricerche febbrili sulla vita e
sulle opere di lui, mi occuparono per quasi due anni, durante i quali, sperando
di trovare qualche traccia che chiarisse il mistero, custodii gelosamente nel
mio cuore il segreto di quel volto amato, sintesi ed emblema della tragedia
dell’anima di Michelangelo”.
A proposito di questo studio di psicologia dell’arte, appare molto
significativo quanto dice lo scrittore Mario La Cava: "“Michelangelo è stato
l'artista sommo che più lo abbia affascinato. Verosimilmente s'interessò più
del suo messaggio, come fu per Freud, che della sua arte. Nel 1913 Freud aveva
meditato sulla figura di Mosè, saldo nella sua potenza, vittoriosa del suo
stesso furore contro l’umanità colpevole. Dieci anni dopo Francesco La Cava
scopre nella pelle di S. Bartolomeo, scorticato vivo, il volto corrucciato e
dolorante di Michelangelo, che lo guarda dal fondo del “Giudizio Universale”.
L’autoritratto michelangiolesco era sfuggito per quattro secoli
all’osservazione attenta di schiere di studiosi ed artisti di tutto il mondo, ed
era la dimostrazione figurata del dramma psicologico del genio.
Il biennio 1923-1925 fu completamente assorbito dagli studi sul grande artista.
Studiò e analizzò meticolosità e pazienza certosina tutto ciò che era stato
prodotto da e su Michelangelo, ne tracciò il profilo psicologico, frugò nei
versi dei sonetti del genio, e nei carteggi esistenti, per trovare una
spiegazione all’autoritratto. Frequentò assiduamente la Biblioteca Hertziana
diretta allora dal professor Ernst Steinmann, il massimo studioso di
Michelangelo.
“Lo studioso tedesco, scrive Francesco La Cava non volle, per quanto io lo
pregassi, conoscere il mio segreto, se non dopo la pubblicazione, avvertendomi
però con tutta gravità sul pericolo di prendere abbaglio”.
Nel marzo del 1925, in occasione del 450° anniversario della nascita di
Michelangelo, La Cava pubblica i risultati dei suoi studi in un libretto, oggi
rarissimo, e gentilmente concessoci dal nipote dott. Giuseppe De Sandro, edito
da Zanichelli, col titolo:
“ IL VOLTO DI MICHELANGELO SCOPERTO NEL GIUDIZIO FINALE”
Il libro ha un duplice pregio: Quello di rivelare Francesco La Cava
scrittore oltre che “ archeologo” dell’arte.
Al di là infatti di ogni positivo giudizio sul contenuto dell’opera, ci colpisce
la splendida prosa in uno stile limpido e conciso; la lettura riesce molto
piacevole, non trovando ostacoli in parafrasi, argomentazioni oscure,
ripetizioni e noiosi paragoni.Il 19 maggio 1925, il La Cava depone la prima
copia del libro sulla scrivania dello Steinmann temporaneamente assente,
consapevole che la sorte critica dello studio dipendeva quasi interamente dal
giudizio autorevole dello studioso tedesco.
La risposta giunge con una lettera che fa onore ad entrambi. Lo Steinmann
aderiva non solo alla tesi ma anche alla forma stilistica in cui il Nostro
l’aveva espressa, Cito testualmente un brano della lettera.
“ Non si vede che lo scrivere non è l’arte sua forse il libro si legge così bene
perché tutto è sentito. E mi pare anche che l’anima sua è stata molto vicina
all’anima del suo Grande Amico”.
E più avanti così si esprime:
“ Lei ha dato con questa scoperta un contributo impareggiabile alla storia
dell’animo di Michelangelo. Capisco bene le sue trepidazioni, ma anche la
immensa gioia che deve aver provato, avendo veduto per primo, quello che nessuno
aveva veduto in quattro secoli “.
In occasione delle celebrazioni romane dello scorso anno, affermerà a questo
proposito, Deodecio De Campos, direttore dei Musei Vaticani:
“ Tutti hanno guardato, egli ha verduto “.
La notizia della scoperta riecheggiò sulla stampa di tutto il mondo e fu
generalmente convalidata dai maggiori studiosi. Anche il biografo di
Michelangelo, il francese Roma in Rolland, scrisse una lettera al nostro La Cava
nel maggio del 1927, nella quale esprimeva tutta la sua meraviglia per una
simile scoperta, alla quale egli non era pervenuto.
Attorno agli anni trenta, nonostante la numerosa clientela e gli impegni
universitari, il Prof. La Cava trova sempre il tempo da dedicare allo studio e
alla lettura. In questi anni avviene in lui un graduale riavvicinamento alla
pratica religiosa; può meglio dedicarsi alla meditazione e questa rinnovata
spiritualità lo porta ad affrontare una serie di studi scientifico-religiosi sul
meccanismo della morte per crocefissione.
Il ricercatore infaticabile offre questo studio alla meditazione del mondo
cattolico, dimostrando scientificamente in una serie di pubblicazioni, che
verranno poi raccolte in volume nel 1953, che non si trattava di un miracolo
divino, ma di una conferma della perfetta natura umana del Cristo che sulla
croce morì come un qualsiasi uomo sano e normale.
In questi anni il Professore comincia anche a tenere corsi regolari sulle
malattie tropicali presso la Scuola Missionaria dell’Ordine di Malta, e diviene
anche perito della Sacra Rota.
La sua casa sempre aperta agli amici, fu animata dalla figura del gesuita
Padre Gaetani, originario di Catanzaro e cugino della moglie dell’ ing. Raffaele
. Profonda fu anche la sua amicizia con Ernesto Bonaiuti del quale apprezzava le
idee e ammirava la personalità, ed anche dopo che questi era stato scomunicato,
lo invitò a Bovalino a trascorrervi un periodo di studio e di vacanza.
Tenendo presente la profonda sensibilità del La Cava, il suo amore per la
verità, si comprende perché egli nel 1934 diede alle stampe un’ opera dal titolo
“ UT VIDENTES NON VIDEANT “ in cui affronta lo spinoso problema della funzione
delle parabole, prendendo l’avvio da un’analisi filologica del testo evangelico;
opera seguita nel 1937 da altri due studi di filologia esegetica:” L’ INA
CAUSALE NEL NUOVO TESTAMENTO” e “LETTERA DI S. ISIDORO PELUSIOTA “.
Altri studi si susseguono fino a 1944.
Tra il 1946 e il 1952 il Prof. La Cava combatte con coraggio contro il male
incurabile che aveva colpito la moglie, che fatalmente gli viene a mancare il 23
aprile 1952.
Con fermezza e rassegnazione si abituò al vuoto incolmabile che la sua compagna
aveva lasciato e accettò con tranquillità il naturale declino della vita.
L’esistenza del medico condotto di Bovalino volge serenamente al tramonto. Alla
vigilia del suo ottantunesimo anno egli muore improvvisamente di fronte al
presidente del seggio elettorale di via campo Marzio a Roma, mentre è intento a
compiere il suo dovere di elettore, la notizia della sua scomparsa viene
riportata su tutti i giornali, che tornano a parlare delle sue opere e della sua
figura.
Si chiude con la sua morte una delle pagine più interessanti della storia
della storia scientifica calabrese del primo Novecento, e cala il silenzio anche
su Bovalino, cioè su quel piccolo comune della Locride che tramite il grande
medico aveva acquistato notorietà e risonanza, spesso portato agli onori della
cronaca scientifica nazionale ed internazionale per essere stato luogo e sede
degli esperimenti e delle ricerche più importanti del La Cava.
Il Sud, il luogo dove aveva lasciato un ricordo indelebile per la sua
attività, si preparò ad accogliere degnamente le sue spoglie, che giunsero
insieme a quelle della moglie, nel novembre 1958.
Careri, il piccolo paese deve Francesco La Cava nacque e trascorse la prima
giovinezza, gli rese omaggio intitolando al suo nome la piazza principale e la
Scuola media.
La città di Roma ne celebrò lo scorso anno il centenario della nascita con
solenni manifestazioni.
Il 24 aprile 1978, Bovalino Marina, la cittadina che egli amò smisuratamente
ed alla quale sono legate le più importanti scoperte dello scienziato calabrese,
gli onori dovuti, commemorandone il Centenario della nascita ed intitolandogli
uno dei più bei viali della sua zona residenziale.
Francesco La Cava (1877-1958) | |
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Anche se è nato a Careri, il 26 maggio 1877, il dott. Francesco La Cava ebbe a Bovalino come sua seconda patria. Qui vi esercitò la professione medica agli inizi del secolo e qui fece le sue prime scoperte scientifiche, che sorpresero i più illustri scienziati dell’epoca, giovandosi di mezzi esigui e di strumentazione inadeguata. Fu tra i primi ad occuparsi di patologia tropicali ed a dimostrare il loro autonomo sviluppo anche in Europa. Finita la I° guerra mondiale, alla quale partecipò come direttore degli ospedaletti da campo, si stabilì a Roma dove il su Studio Medico fu frequentato da nomi illustri della cultura, dell’arte, e della scienza. Furono suoi clienti ed amici, fra gli altri, Mascagni, Cilea, Vincenzo Gemito e lo storico del Cristianesimo Ernesto Buonaiuti. Francesco La Cava oltre ad essere uomo di scienze fu studioso dell’arte, analista attento delle Sacre Scritture e saggista eclettico. Nel 1925 scrisse un saggio con il quale rivelò al mondo la sua scoperta nella pelle di San Bartolomeo, nell’affresco del Giudizio Universale della Cappella Sistina, del volto di Michelangelo. Scrisse illuminati saggi sull’interpretazione teologica di passi di controversa lettura delle Scritture (Ut videntes non videant). Affrontò in un saggio di sorprendente lucidità scientifica e di forte nitidezza espressiva il problema della morte di Gesù Cristo. Morì a Roma il 25 maggio 1958.
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FRANCESCO LA CAVA TRA SCIENZA E FEDE
di Giuseppe Italiano
Possono coesistere in una persona la semplicità più disarmante nei rapporti umani e il rigore più severo nel lavoro? La generosità più grande verso il prossimo e la fermezza più tenace nella difesa delle proprie convinzioni? Sembrerebbe difficile, ma la risposta è stata data da uomini che, con la loro personalità, hanno costituito testimonianza della possibilità di ciò. Uno di questi è stato Francesco La Cava, medico e umanista del primo Novecento.
Francesco La Cava è nato a Careri il 26 maggio 1877, primogenito di Giuseppa Colacresi e di massaro Giuseppe La Cava, che avrebbero avuto in seguito altri cinque figli.
Allora, nelle famiglie che ricavavano una certa agiatezza dalla rendita della proprietà terriera, era prassi consolidata che il primo figlio maschio fosse destinato al mantenimento della stessa. E tale decisone era stata presa per Francesco, tanto che fino a 12 anni il ragazzo sapeva appena leggere e scrivere. Ma lo zio paterno Rocco, che era l’arciprete di Careri, si accorse delle capacità del ragazzo. L’intuito di Don Rocco si sarebbe rivelato fondato: Francesco entra in convitto a Gerace Superiore, dove studia proficuamente; per il liceo si sposterà a Messina, al Maurolico, dove venivano accolti i migliori studenti. A diciotto anni è già diplomato e pronto ad iscriversi all’Università di Napoli, in Medicina.
Conseguita la laurea (1902) e prestato servizio militare a Firenze, come ufficiale medico nei bersaglieri, avrebbe potuto scegliere comodamente la carriera universitaria o quella ospedaliera nella capitale. Ma obbedisce con naturalezza al padre, il quale vuole che il figlio torni in Calabria per essere più vicino alla famiglia e di sostegno ad essa. E per semplice obbedienza filiale accetta quella che appare la più modesta tra le possibilità di lavoro che si affacciavano alla sua vita: la condotta rurale a Bovalino Marina, che gli offrirà quelle occasioni mediche che costituiranno il volano del suo viaggio di ricercatore.
Notevoli erano allora le difficoltà nell’esercitare la professione medica. Inesistenti le strutture ospedaliere, il medico doveva fare di tutto: all’occorrenza, anche le operazioni chirurgiche.
Tra il 1910 e il 1914 il La Cava lavorò intensamente: ebbe la ventura di scoprire tra i suoi pazienti alcuni casi di Bottone d’Oriente (manifestazione cutanea della Leishmaniosi), la tipica malattia tropicale, conosciuta nel popolo come “coccio calloso”. Definita anche Bottone d’Aleppo, la malattia si manifestava sulle parti esterne del corpo, soprattutto sul viso. Si presentava come una papula callosa, rotondeggiante, con ulcerazione centrale.
Il prof. Umberto Gabbi era il suo punto di riferimento. Le sue comunicazioni di quegli anni a vari convegni di medicina riferivano inoltre, in poche pagine chiare e precise (era solito ripetere: “Mai dire con venti ciò che si può dire con dieci parole”), altri casi di Leishmaniosi umane riscontrate: quella delle mucose e quella interna o viscerale o Kala–azar; tutte in soggetti che non si erano mai mossi dal loro paese. Constatando che l’endemicità di tali malattie esotiche non era regola fissa. Il La Cava quindi forniva le prove che la Leishmaniosi, nelle sue tre manifestazioni (cutanea, muco–cutanea, viscerale), poteva sorgere e progredire autonomamente anche in Occidente.
Altre malattie tropicali da lui registrate a Bovalino, in quegli anni di intenso lavoro, sono: la Febbre Dengue (temperatura corporea altissima, dolori in tutto il corpo, deperimento organico, disturbi gastroenterici); la Febbre dei tre giorni (cefalea, dolori alle ginocchia, tre giorni di durata); la Febbre di Malta (anemia, dolori muscolari, deperimento, 2-3 settimane di durata); la Miasi oculare (fuoriuscita dall’angolo esterno dell’occhio di piccoli vermi, cioè larve di mosche); l’Ulcera tropicale (interessa gli arti inferiori: ha inizio con piccole escoriazioni, che poi si ingrandiscono in ulcerazioni che possono raggiungere la dimensione del palmo di una mano).
È del novembre 1914 un suo studio pubblicato nel 1915: Sopra un caso di Beriberi osservato nell’Italia meridionale. Viene definito dal La Cava «il primo caso autoctono di Beriberi che (…) sia conosciuto in Italia».
Curò inoltre, pionieristicamente, due casi di dissenteria da amebe con il cloridrato di emetina. Egli sapeva di esperimenti già eseguiti da suoi illustri colleghi: E.B. Vedder per primo aveva potuto constatare l’effetto deleterio dell’emebina sopra una cultura di amebe; Leonard Rogers aveva sperimentato che soluzioni di sali di emetina avevano la capacità di uccidere rapidamente le amebe contenute in feci dissenteriche. Quindi approfondisce le sue conoscenze leggendo trattati di farmacologia. Due furono i suoi pazienti: il primo di Bovalino, Ettore Badolato, 26 anni, che aveva contratto la malattia in Tunisia, a Souse, dove si era recato nel 1909 «per insegnare in quelle scuole italiane»; il secondo di Careri, Z. G., 42 anni, che non si era mai spostato dal suo paese. Allora in Italia era impossibile trovare il farmaco e il La Cava lo chiede allo stesso Rogers, che glielo manda da Calcutta. Fu il primo in Europa ad usarlo per curare la dissenteria.
Le ricerche effettuate e la professione non esauriscono i suoi interessi di uomo aperto al sapere. Nel 1923 scopre per primo, dopo quattrocento anni, che, nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, Michelangelo si era raffigurato nella pelle di San Bartolomeo. Tenne per sé il segreto per due anni: lo comunicò al mondo con un pregevole libro, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale. Un dramma psicologico in un ritratto simbolico, pubblicato dalla Zanichelli di Bologna, nel 1925, in occasione del 450° anniversario della nascita del Grande.
Nella parte centrale dell’affresco, San Bartolomeo, che secondo la tradizione è stato scorticato vivo, seduto su una nuvola, mostra, tenendola con la mano sinistra, la sua pelle pesantemente pendula: tra le grinze della stessa, là dove doveva esserci il volto del Santo, appare l’autoritratto di Michelangelo. Un autoritratto simbolico: la pelle assurge a metafora di sofferenza, di accuse infamanti, di profonda inquietudine; e Michelangelo ha voluto effigiarvisi come per denunciare al mondo quanto aveva sofferto, quanto era stato perseguitato, quante infamie aveva subìto, quanti tormenti lo avevano afflitto. Il libro di La Cava, nei sei capitoli che lo compongono e nell’epilogo, tende alla dimostrazione di ciò.
Nel 1930, quando ormai la sua fede aveva raggiunto solida certezza, pubblica un primo studio scientifico–religioso su “Rinascenza medica”, Era Gesù Cristo affetto da pleurite? Meccanismo della morte per crocifissone, che costituirà premessa ad un libro suo del 1953, La passione e la morte di N.S. Gesù Cristo illustrate dalla scienza medica (M. D’Auria Editore Pontificio, Napoli), diviso in 16 essenziali capitoli. Egli ricava i dati clinici, che gli permettono di esaminare il caso, esclusivamente dal Vangelo. E precisamente dalle parole di Giovanni, testimone oculare della morte del Maestro; per usarle come identificazione di un reperto necroscopico: il colpo di lancia di Longino sul fianco destro di Gesù già morto. Colpo, che provoca la fuoriuscita di sangue e di acqua, distintamente: prima il sangue e poi l’acqua. Giovanni appare chiaro: «continuo exivit sanguis et aqua» (XIX, 34), «subito ne uscì sangue e acqua».
Alcuni studiosi giustificano il sangue con la rottura della parete del cuore stesso, dovuta alle sue violente contrazioni; e attribuiscono la fuoriuscita dell’acqua alla ferita del pericardio, la membrana che avvolge il cuore e che contiene una certa quantità di liquido.
La Cava osserva che la rottura spontanea del cuore è evento assai raro. E aggiunge che, se anche così fosse stato, non si sarebbe potuto verificare la fuoriuscita distinta di sangue e acqua, poiché, nel cavo pleurico, i due elementi si sarebbero mescolati. E il medico spiega. Il prolungato atteggiamento inspiratorio del cruciarius aveva portato la grande vena azygos, dalla parte destra, ad inturgidirsi di sangue; così come le altre vene endotoraciche; la cui pressione aveva provocato la trasudazione di siero e il formarsi dell’idrotorace. Il sangue, scuro, proviene quindi dalla vena colma; l’acqua, ben distinta, dall’idrotorace da stasi del cavo pleurico.
Gli interessi del medico perlustrarono anche il campo della filologia, della teologia e dell’esegesi. Nel 1934 pubblica “Ut videntes non videant”, che ha per sottotitolo Il motivo e lo scopo delle parabole nel Vangelo, presso la casa editrice Marietti di Roma. È una lucida analisi delle interpretazioni controverse del passo di Luca in cui Gesù Cristo spiega ai discepoli «la ragione per cui Egli, parlando alla turba, adopera le parabole: “Ut videntes non videant, et audientes non intelligant”». Questo il passo di Luca in una edizione ufficiale della CEI del 1974: «I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. Ed Egli disse: “A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché vedendo non vedano e udendo non intendano”».
Le traduzioni avevano attribuito all’ut ora valore finale ora valore consecutivo, imputando di «doppiezza Colui che è la pura Verità». Per il La Cava quell’ut ha valore “dichiarativo di causa obbiettiva”. E il passo controverso viene così reso: “A voi Dio fa conoscere apertamente il suo piano di salvezza, agli altri lo fa conoscere solo in parabole, perché guardano, ma non vedono / ascoltano, ma non capiscono».
È del 1944 Sulla Comunione Eucaristica attraverso la fistola gastrica, un suo studio medico-esegetico tendente a dimostrare la validità della Comunione Eucaristica, quando si somministra l’ostia attraverso fistola gastrica a quegli infermi impossibilitati ad ingerirla per via orale.
La vita di Francesco La Cava si concluse domenica 25 maggio 1958, per collasso cardiaco, mentre, accompagnato dal figlio Virgilio, si accingeva a compiere il suo dovere di elettore nella sezione elettorale n. 6, via Campo Marzio n. 10/A, di Roma.
Sua ultima dimora, il cimitero di Careri.
Bibliografia:
Giuseppe Italiano, La forza della semplicità – Francesco La Cava tra scienza e fede, Ardore M. (RC), Arti Grafiche Edizioni, 2002
ISBN 88-88743-00-6