SAVERIO STRATI

Il debutto come scrittore di Saverio Strati è legato a una curiosa coincidenza, avvenne nello stesso anno in cui morì Corrado Alvaro, il 1956, quasi a simbolizzare un passaggio di testimone tra due grandi autori calabresi, impegnati a raccontare e combattere i mali del nostro Sud. Quel primo libro era una raccolta di racconti intitolata 'La marchesina' e da allora, pure essendo oggi un nome quasi dimenticato, come un pò tutti quelli della sua generazione, di strada ne ha fatta molta e ha avuto anche la soddisfazione di vedere un suo libro come il più votato dalla giuria popolare del Campiello, vinto così nel 1977 con 'Il selvaggio di Santa Venere'. I suoi temi sono sempre stati, la miseria, la lotta per la sopravvivenza, l'esasperazione per le ingiustizie, l'asservimento e lo sfruttamento di una terra oppressa dalla politica e dalla mafia, terra d'emigranti, come i personaggi di 'Gente in viaggio', che in occasione del compleanno sta per tornare in libreria edito da Gallo & Calzati, assieme a un cd di musiche e canti sull'emigrazione e un dvd, 'Tributo a Saverio Strati', film intervista a cura di Anna de Manincor.

Strati nacque nel 1924 a Sant'Agata del Bianco, in provincia di Reggio Calabria, e crebbe facendo il muratore assieme al padre sino a 21 anni, ma anche studiando da autodidatta e riuscendo ad arrivare a ottenere il diploma di maturità classica e quindi a frequentare l'università di Messina, grazie all'aiuto di uno zio emigrato in America. E' allora che comincia a scrivere con più impegno e incontra Giacomo De Benedetti che, per primo, lo incoraggiò a continuare, e si trasferisce a Firenze, scrivendo su riviste come 'Paragone' e 'Nuovi Argomenti', dove torna e vive tutt'oggi, dopo alcuni anni passati a lavorare in Svizzera. Il lavoro di scrittore, dopo l'esordio, prosegue e, sul filo di una condizione umana e storica filtrata attraverso l'esperienza personale, vede alla fine degli anni '50 la pubblicazione di due romanzi che restano forse i suoi più importanti, 'La Tedà e 'Tibi e Tascia', assieme a 'Mani vuote'' e cui si aggiungeranno, tra i vari titoli, 'Noi lazzaroni' nel '72 e 'Il selvaggio di Santa Veneré nel '77.

Le ultime cose di rilievo pubblicate risalgono a una ventina d'anni fa e sono 'Il diavolaro' e 'Cari parenti'. De 'La teda' Vittorini sottolineò "l'allegro stupore e la ingenua malinconia" e questa vicenda corale di un paese d'Aspromonte negli anni del fascismo, chiuso in se stesso e pieno di aspettative deluse capaci di far nascere solo rancori, ha una tensione civile e umana, grazie a una scrittura dal bel ritmo arcaico e tutta scarne e illuminanti immagini.

Di bella vena poetica, sia nella solarità dei paesaggi, sia nel raccontare dei due giovani protagonisti, 'Tibi e Tascia' valse a Strati il premio internazionale Villon. Un ragazzo e una ragazza sognano assieme un futuro diverso da quello che gli si prospetta davanti, progettando evasioni che solo Tibi riuscirà a realizzare, mentre Tascia resterà prigioniera della sua condizione femminile. Il racconto si chiude nel momento più alto, quello del distacco tra i due, che si lega a tutta la dolorosa aspettazione precedente. La loro adolescenze si riflette e prosegue in quella dell'Emilio di 'A mani vuote', maturata nell'assenza di reazioni esterne e nel conseguente vuoto interiore che circonda cose e persone in una Calabria brutale e primitiva di pastori e carbonai, dove ogni sogno, anche quello dell'emigrare in America è faticoso e destinato, come accade al protagonista, a ritrovarsi comunque senza nulla in mano. I personaggi di Strati sono destinati a pagare sempre cara la loro condizione sociale e esistenziale, a vivere con dolore ribellioni e tentativi di riscatto, che in genere si identificano con l'emigrazione in paesi lontani, dove scoprano di essere sempre dei 'lazzaroni'.

Tutti temi che sono riproposti e trovano una visione più complessa e una visone narrativa più matura in 'Il selvaggio di Santa Venere' e soprattutto 'Il diavolaro' del 1980, che pur restando legati a una realtà e un mondo che certo va inteso come luogo poetico e metaforico, cerca di affrontarne i mutamenti che gli anni registrano e che hanno messo in crisi vita e rapporti rispetto al dopoguerra, rendendo più forte il contrasto con essi di caratteri umani legati alla tradizione e che si oppongono al nuovo dal profondo di sé stessi. E' grazie a questi libri e alla sua capacità di dare valenze e ansie umanissime al discorso civile, così da processare direttamente o indirettamente tutta una società, che Saverio Strati ha oggi un suo posto nella nostra letteratura del dopoguerra e, con Fortunato Seminara e Corrado Alvaro ha dato storia e spessore alla coscienza culturale della sua Calabria.

Pasquino Crupi nella sua Storia della letteratura calabrese lo definisce "decisamente narratore antialvariano" che "non ha amore per la civiltà contadina e non ama il linguaggio vellutato del dottissimo sanluchese [, che] schiera subito la sua opera contro la civiltà contadina sulla quale non bisogna né piangere né raccogliere memorie [e che] imposta un linguaggio che risente della sintassi e del lessico popolare". Ne traccia, altresì un profilo la cui evoluzione è caratterizzata da tappe neorealistiche (La Teda), sociali (Noi lazzaroni): - "scrittore sociale [che] fuori dal dramma collettivo del popolo, inchiodato sulla terra o in fuga, ha poche cosa da dire", - interiori (L'uomo in fondo al pozzo)

 

 

 

La lettera di Saverio Strati per chiedere aiuto tramite la legge Bacchelli

 

Quel segreto di Saverio Strati…
Scritto da Domenico Stranieri il 20 novembre 2014. pubblicato su www.inaspromonte.it

 

 

 

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